Da qualche tempo è sempre più in voga il dibattito intorno agli e-sports. Non è infatti possibile ignorare un fenomeno che da semplice passatempo da salotto sta diventando, soprattutto in alcuni Paesi, una vera e propria attività professionistica con possibilità di guadagno talvolta anche molto elevate.
Basti pensare che in Corea del Sud e Cina da diversi anni esistono team e giocatori professionisti che partecipano a grandi eventi organizzati con un numeroso pubblico al seguito.
Per quanto riguarda il nostro Paese, secondo l’ultima ricerca “Gaming ed Esports in Italia” realizzata da Yougov e presentata dall’Osservatorio Italiano Esports, ben 6 milioni di persone si dichiarano fan del mondo e-sport.
Tenuto conto delle possibili implicazioni di un business di questa portata, all’estero sono stati fatti degli sforzi importanti per regolamentare, almeno parzialmente, il settore. Per esempio in Cina sono stati fatti passi in avanti nella gestione di problematiche come l’inquadramento contrattuale dei giocatori, la gestione degli sponsor, delle società, delle federazioni sportive e l’organizzazione degli eventi.
In Italia si sono presentate difficoltà maggiori nell’adozione di una normativa ad hoc, probabilmente perché si tratta di un settore nuovo e quindi difficilmente inquadrabile dal punto di vista normativo.
In questo contesto si inserisce il dibattito circa l’opportunità di riconoscere gli e-sports come una disciplina sportiva a tutti gli effetti, con conseguente applicazione delle relative norme.
Bisogna considerare in proposito che la Carta Europea dello Sport definisce lo sport come “qualsiasi forma di attività fisica che, attraverso una partecipazione organizzata o non, abbia per obiettivo l’espressione o il miglioramento della condizione fisica e psichica, lo sviluppo delle relazioni sociali o l’ottenimento di risultati in competizioni di tutti i livelli”.
Si tratta quindi di una definizione in cui la componente fisica assume un rilievo fondamentale.
Tuttavia, a voler ben vedere, le istituzioni italiane e internazionali riconoscono come discipline sportive anche attività non necessariamente impegnative fisicamente, ma che richiedono piuttosto capacità logiche e intellettive (ad es. bridge, scacchi, dama).
Da questo punto di vista non sarebbe quindi incoerente riconoscere come sport anche il gaming competitivo.
In questa direzione peraltro si è espresso il CIO (Comitato Olimpico Internazionale) in data 28 febbraio 2017 affermando: “gli esports competitivi possono essere considerati un’attività sportiva, e i giocatori coinvolti si preparano e allenano con un’intensità che può essere paragonata a quella degli atleti delle discipline tradizionali”.
Nonostante questa presa di posizione, restano alcune incertezze legate ad esempio al potenziale rischio di dipendenza da videogiochi o alla mancanza dei principi etici che da sempre contraddistinguono gli sport “tradizionali”.
Proprio per dipanare completamente questi dubbi, il 22 maggio 2020 il Presidente del CONI Giovanni Malagò ha dato ufficialmente mandato di sviluppare le attività e definire i requisiti necessari al riconoscimento della disciplina sportiva degli E-Sports.
Per il momento, nel nostro Paese la normativa applicabile alle competizioni virtuali resta inevitabilmente quella generale, vale a dire quella che regola i giochi di abilità con vincita di premio in denaro e quella relativa alle manifestazioni a partecipazione gratuita ma con assegnazione di premio.
Il rischio è che talvolta la disciplina generale possa mal adattarsi alla fattispecie del gaming competitivo creando difficoltà operative ed interpretative che potrebbero finire col rendere più complicato e meno attrattivo questo business in Italia.
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